Li ha vissuti da vicino gli anni che avrebbero portato il Genoa per la prima volta nella sua storia in Serie C Riccardo Mascheroni, 78 presenze e diciassette reti con la maglia del Genoa tra 1967 e 1970.

Mascheroni visse gli anni della Serie B, degli spareggi per mantenere la categoria e dei piazzamenti “beffa” a pochissimi punti dalla promozione nel massimo campionato. E il Genoa lo acquistò dal Novara per farne un giocatore fondamentale del suo centrocampo.

Nella stagione 1969/70, quella che culminò con la partita contro il Pisa che sancì la retrocessione, Mascheroni si fece seriamente male a una gamba. Niente più partite, come ci racconterà, e una retrocessione vissuta da lontano, da fuori, col ricordo di un tifo arrabbiato nel vedere il Genoa rischiare il baratro. Per i rossoblu, come raccontato già quest’oggi nella nostra rubrica sulla storia del Genoa, erano anni difficili anche fuori dal campo, in società, con un bilancio da risanare e una guida da seguire per ritornare ai fasti di qualche anno prima.

Nella lunga intervista rilasciata alla nostra redazione, Mascheroni ha parlato poi del Genoa attuale, delle sue sensazioni e opinioni sul centrocampo rossoblu e su come si vive il tifo a Genova, proseguendo nel racconto sia della storia del Genoa sia del momento che vive oggi, nel 2017, il Vecchio Balordo.

Sinceramente parlare di un reparto del Genoa non significa nulla a questo punto. La squadra è fatta dai tre reparti ed è inutile adesso tirare fuori il centrocampo dopo un campionato che, secondo me, è andato benissimo all’inizio – sin troppo bene – perché ci si è salvati troppo presto e quindi si sono tirati i remi in barca. Non è un problema di centrocampo, attacco o difesa, questo perché un centrocampo va bene ed è eccezionale quando davanti segnano e dietro non prendono gol. È chiaro che dipende dagli altri reparti, da tutto l’insieme

Posso fare solo un commento sulla situazione del Genoa: è una squadra che nei primi tre mesi ha quasi raggiunto la salvezza ed è stata poi smembrata vendendo i migliori. Chiaro, la società avrà i suoi problemi e per questo vende i migliori. Noi siamo specialisti nel rilanciare tutti i calciatori che sono un po’ in declino, da Perotti a Pavoletti. Capisco che sia necessario per restare in Serie A e salvarsi.

Inutile parlare di un reparto? Assolutamente. Non ha senso, non esiste. È la squadra nel suo insieme ad essere andata in crisi, per motivi che non sto neanche a dire. C’è stata una crisi di risultati, forse si sono tirati troppo presto i remi in barca e quelli che erano di riserva non sono riusciti a sostituire i titolari, ma soprattutto ricordiamoci che il campionato di una squadra è sempre legato ad alcuni risultati fortunati o alla “cavatina” di un singolo, di una prodezza del centravanti o di una parata o di un salvataggio sulla linea dei difensori. Tanti discorsi tattici e tecnici sono inutili: se davanti segnano e dietro parano tutto, si vince. E di conseguenza anche il centrocampo è eccezionale. Quando però, pur giocando bene, si colpisce un palo o il portiere fa una “cappella”, si perde la partita – come col Palermo -, ed ecco che il centrocampo non vale più niente.

Oggi come oggi non lo guardo neanche il Genoa perché ormai è salvo. Faccio il tifo per sapere il risultato, ma non guardo più la partita minuto per minuto perché intanto è una delusione. Poi non è che ci possano proporre degli spettacoli eccezionali: è un gioco tanto per tirare a finire il campionato. Non credo proprio che il Palermo riesca a vincere tutte le partite di qui alla fine e che noi le perdiamo tutte. 

Noi acquistiamo per rilanciare e quando sono i migliori li vendiamo. Pazienza, comunque non si cambia tifo. Io parlo dei nuovi, di chi dovesse scegliere una squadra per cui tifare (come il mio nipotino). A loro conviene scegliere la Juventus. Logico, vince sempre. Non soffre mai.

Quando tifosi così caldi e particolari – e sono pochi i tifosi così caldi come lo sono i genoani – restano delusi, finiscono per metterti in qualche modo “paura”. “Paura” nel senso che capisci che li stai deludendo e purtroppo non riesci a fare di più. E pensi: “povera gente, soffre come soffriamo noi che non riusciamo a raggiungere dei traguardi“.

È un tifo bello quello rossoblu, che ho vissuto sia quando le cose andavano bene (nel secondo anno arrivammo quarti o quinti e fu un bellissimo campionato) sia durante gli spareggi e durante la retrocessione (nel 1970, ndr), che ho vissuto da esterno perché non ho nemmeno più fatto un allenamento. Provai a rientrare in campo a distanza di due mesi dall’infortunio, intorno a marzo, ma per me il campionato era chiuso: fui operato due volte al ginocchio. 

Mi feci male proprio in un recupero con la Reggiana: 1-0 con mio gol. Con quella vittoria andammo in una zona relativamente tranquilla, poi dopo ci furono altri acciacchi. L’annata fu disastrosa dal punto di vista fisico e degli infortuni. Per i motivi di cui ho spiegato, io non mi sentivo corresponsabile della retrocessione ma capì benissimo che si era creato uno stato d’animo, una situazione così insostenibile che nessuno trovò la forza di reagire: retrocedemmo“.

DI SEGUITO L’AUDIO INTEGRALE DELL’INTERVISTA: