“Perinetti professionista che fa rima anche con Perinetti tifosi e appassionato non può andare avanti se non si trova, se non riesce a dare ed esprimersi“. Il riferimento era all’incompatibilità “assoluta” maturata nell’ultima esperienza palermitana, quando rassegnò le dimissioni per essere poi richiamato tre mesi dopo. Allargando le vedute, questa affermazione del direttore generale rossoblu Giorgio Perinetti potrebbe racchiudere argomenti anche molto attuali.
Non poteva stare senza mare: e da Siena andò al Bari…
“Eh già. Ricordo che un suo collega, il giorno della presentazione, mi chiese cosa pensassi di fare a Bari. Era un contesto abbastanza depresso: contestazioni a Matarrese, soltanto 400/500 paganti. Risposi che avrei voluto rivedere il San Nicola pieno. Ce l’abbiamo fatta: facemmo già 50mila spettatori in Serie B contro Parma ed Empoli e vincemmo il campionato con Conte, lanciando un grande allenatore. L’anno successivo, con Ventura allenatore, avemmo sempre lo stadio pieno e il record di punti (50) del Bari in Serie A. Furono due stagioni da brivido da vivere in una città che dopo nove anni rivoleva la Serie A.
Poi è tornato a Palermo. Ha incrociato Gasperini, ha conosciuto Malesani…
A Palermo ne ho incontrati tanti di allenatori, non li ricordo neanche tutti. C’è uno striscione bellissimo issato dai tifosi del Palermo che recita “Chi è l’allenatore oggi”. Palermo è un po’ casa mia, anche per questioni familiari, e le esperienze al Sud, specialmente quelle vissute lì, sono sempre gratificanti. Come allenatori ebbi anche Gattuso e Iachini. Vincemmo un campionato con Dybala e Belotti.
Poi arriva il Venezia di Tacopina…
Questa è stata l’esperienza un po’ più folle delle altre, se vogliamo dire così. Ripartire dalla Serie D per uno che la Serie D non l’ha mai fatta è stato un po’ presuntuoso. Gli altri miei colleghi hanno detto che è stata l’umiltà allo stato puro. A Venezia si trattava di prendere una squadra con le idee di Tacopina, un imprenditore americano con tanta volontà di rilanciare questo progetto, e ripartire da questi campi mi ha riavvicinato al calcio dei miei primi anni: il calcio più puro, genuino. Abbiamo vinto subito salendo in C e, pur avendo avversari fortissimi come Padova e Parma, assieme a Simone Inzaghi siamo riusciti a riportare il Venezia in Serie B in soli due anni. Sono felice che anche dopo la mia partenza per venire al Genoa la squadra continui ad andare bene.
Lei può essere uno dei direttori generali più completi. Ha avuto tanti presidenti, uomini come Ferlaino, Zamparini, Mezzaroma, Matarrese, Moggi, due volte Preziosi. In questi uomini cosa c’è da prendere? Oggi ci sono americani, cinesi…
Era un calcio più semplice, più genuino dove i dirigenti, prima di diventare imprenditori calcistici, erano tifosi di calcio. E portavano questa passione. La stessa che porta l’attuale proprietà: si fanno tante cose, alcune buone e altre meno, ma quando una proprietà porta dentro sé almeno un attaccamento al calcio, alla piazza che rappresenta è la maniera più positiva di lavorare. Ho sempre accomunato la voglia di essere professionali alla passione che si ha da bambino, nel vedere Lazio-Genoa e capire che non potendo giocare a calcio, si voleva diventare uno di quegli omini che si aggiravano per il campo. Questo per vivere una passione da vicino facendola diventare una professione. Tutti i dirigenti nominati avevano come minimo comune denominatore la passione calcistica.
Allora lei è Giobbe perché tutti i personaggi nominati hanno sempre avuto un carattere un po’ fumantino…
Siccome sono riflessivo, posso cercare di integrarli proprio perché lo sono. E perché sono calmo in un mondo un po’ esasperato come quello del calcio. Questa “flemma” me l’ha un po’ imposta Liedholm nei tanti anni passati con lui: era un uomo compìto, serio, che viveva le sue passioni dall’interno insegnandoci a gestire la nostra emotività con molta attenzione.
Ha lanciato tanti calciatori: chi le è rimasto più impresso?
Torno sul discorso di Cannavaro perché rappresenta il ragazzino che sul campo assolato di San Vitaliano di Nola gioca la finale allievi. Ho visto quanto era importante per un dirigente del Napoli restare attaccato alle radici, avere passione per il settore giovanile e andare a scoprire il talentino di periferia. Un talento che sarebbe poi diventato un Pallone d’Oro. Dico sempre ai miei giovani calciatori che il gol più bello è sempre il prossimo. Analogamente per un dirigente l’affare più bello è sempre il prossimo, la squadra più bella è sempre la prossima. Questo aiuta a superare anche un po’ di stanchezza data dall’età, dalla stanchezza e dalla tanta carriera fatta e dà nuovi stimoli.
Che consigli darebbe alla Nazionale?
Ne darei tanti. Credo che tutto parta dalle basi: dobbiamo ripartire dal concetto di calcio più adatto al nostro sistema. Bisogna tornare ad insegnare la tecnica, bisogna ritornare ad avere istruttori nei settori giovanili, togliere le lavagne dagli spogliatoi. Tornare a giocare quel calcio che ci ha fatto diventare Campioni del Mondo tante volte, che ci ha identificati nel mondo come scuola calcistica. Bisogna esaltare le proprie caratteristiche e non scimmiottare quelle degli altri. Ora giustamente si è concentrati sull’allenatore: tutti nomi importanti e stimatissimi. Mi auguro però si possa ricreare la scuola degli allenatori federali. Se possono Conte, Mancini e gli altri nominati passare dall’allenare squadre di club alla Nazionale? Il problema non è l’allenatore. Abbiamo bisogno di strutture per le giovanili, di un coordinamento delle squadre nazionali giovanili per portare al selezionatore della Nazionale A il miglior prodotto possibile.
Come fa a conciliare famiglia e calcio?
Ho avuto la fortuna di trovare una compagna, una moglie straordinaria che mi ha consentito con la sua vicinanza di poter lavorare. Purtroppo l’ho persa, ma cerco di essere vicino a queste ragazze. La famiglia per tutti quelli che fanno calcio è molto penalizzata, questa è la verità: non posso sottrarmi a questo. La mia grande famiglia è il calcio e cerchiamo di vivere tutte le cose nel modo migliore.
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