Il tecnico rossoblu Cesare Prandelli si è concesso alla trasmissione “We Are Genoa” in una lunga intervista che, partita dall’ultima sfida Genoa-Juventus, è arrivata a farlo parlare del prossimo derby contro la Sampdoria. Ma si è parlato anche di Pedro Pereira (“l’ho scosso fisicamente dicendogli che dipendeva tutto da lui“), di Biraschi (“deve convincersi che può fare anche altri ruoli“) e dei sogni che la tifoseria genoana deve continuare a coltivare (“il presidente Preziosi continuo a sentirlo convinto di voler fare qualcosa di buono per questa tifoseria). Di seguito proponiamo le tematiche trattate punto per punto.
Su Genoa-Juventus:
“Non si è fatto nulla, ma se lavori con serenità e consapevolezza di poter fare le partite in un certo modo, aiuti tutti, aiuti l’ambiente e le aspettative diventano diverse. Ma non hai fatto nulla e devi riconfermarti. Mi auguro di arrivare a 40 punti velocemente. Sono felice dopo Genoa-Juventus perché per la prima volta la squadra è stata veramente molto, molto equilibrata.
In questo momento abbiamo ricreato un clima sereno per lavorare bene, ma non dobbiamo abbassare l’intensità. In questo senso, con la Juventus è stata una delle partite più alte che abbiamo fatto. Poi ogni gara ha una storia, una preparazione diversa, un’avversaria differente. Ma se hai questa base, puoi lavorare bene”.
“Se tu organizzi la squadra e hai un buon assetto e gli avversari ti danno spazio e tempo, allora puoi sviluppare le azioni. Quando non c’è spazio e non c’è tempo, viene fuori la qualità del singolo: ciò che non si è visto in alcune partite. Per dire, sono ancora arrabbiato oggi per Parma: hai il predominio, crossi venti volte, ma in area in cinque ci sei andato una volta. Ci vuole coraggio, che non vuol dire fare le capriole, ma andare a cercare la fortuna che abita in area di rigore. Quando dico che devi attaccare l’area di rigore con più giocatori, intendo l’uomo che attacca, anche fuori tempo, il primo palo e così porta via un giocatore in certe zone del campo. Se questo si può insegnare? Sì, l’insegnamento mi affascina, ma ci vuole tempo. Avevo un tempo Gilardino, che aveva questa caratteristica di attaccare sempre il primo palo. Il tempo e il lavoro quotidiano ti permettono di completare un giocatore”.
Su Radovanovic, le polemiche dopo le sue prime uscite e la gara di domenica:
“L’ambientamento è un problema a per tutti i giocatori. Sempre. Ricordo tanti anni fa che arrivò un giocatore, Platini, che ci impiegò sei mesi per ambientarsi. Trovò nuovi giocatori, caratteristiche diverse, cambiarono l’alimentazione, l’ambiente e la percezione di ciò che vuole la squadra. L’importante è che Radovanovic abbia capito che è un riferimento, ma non è l’unico. Soprattutto l’abbiamo preso per verticalizzare e domenica l’ha fatto benissimo”.
Sul suo modo “gentile” di allenare:
“Mi ci trovo in questa definizione: più abbassi i toni, più incidi. Tutte le volte che vado fuori limite è sempre una ferita per me, perché significa che da un punto di vista umano si sta sbagliando qualcosa. Loro sono giocatori pagati, professionisti, e non hanno bisogno tutti i giorni di sentirsi dire di fare certe cose. Questo perché deve essere la serietà umana a importi di farlo. Noi siamo vigili, pronti a stimolare e invogliare a correggere le proprie formazioni in campo in maniera abbastanza energica. Ci può stare in certi momenti di battere i pugni e quando lo fai ricevi in cambio una grande attenzione”.
“I giornali mi piace leggerli dopo un giorno o due. Se li leggi con un po’ di distacco, le critiche costruttive ti danno lo stimolo per fare qualcosa in più. Ogni parere è da rispettare: poi si risponde in base a ciò che si vuole trasmettere”.
Su Pedro Pereira:
“Ognuno ha la propria personalità e il proprio carattere. La tua gestione non puoi pensare che si adatti solo ed esclusivamente a una squadra. Devi capire le personalità. Per me Pedro Pereira è un giocatore importante, e lo sta dimostrando come lo sto dimostrando io schierandolo in campo. Quindici giorni fa l’ho proprio scosso fisicamente dicendogli che dipendeva da lui in questo momento. Tante volte certe aspettative soffocano la crescita. Allora devi capire con quali giocatori devi alzare oppure abbassare la voce. Psicologia? Non so come si chiama, è bello leggere i risvolti di una mente umana che capisce dove ta lavorando e cosa vogliono i tifosi. Se uno non sbaglia questo, allora gli posso perdonare qualsiasi cosa”.
Sul tifo a Genova:
“Quello che ho percepito in questo ambiente, a tutti i livelli, è che c’è un amore per questa maglia. Ci sono ambienti dove, alla fine delle partite, ti chiedono “ma cosa ha fatto l’Inter? Cos’ha fatto la Juventus?”. Qui invece si vive per il Genoa ed è un tesoro da sfruttare. Tante volte dico “oh, non sono solo! Se vinciamo o perdiamo datemi la mano, ci siete anche voi qua. E siamo tutti coinvolti”. E infatti anche alla fine della partita con la Juventus ho viste molte persone che, seppur forti e rocciose, avevano la lacrima agli occhi”.
“Ho sempre avuto grande timore del Ferraris. Domenica è stato straordinario. C’è il rovescio della medaglia: tu devi avere la personalità di reggere qualche mugugno o fischio, perché ci sono grandi aspettative. I tifosi poi ti perdonano anche subito l’errore. Ma tu devi avere sempre una grande forza interiore”.
“Il Genoa non vince da tanto tempo? I tifosi non devono smettere di sognare. Tante volte può bastare vincere una Coppa Italia…Questo stadio ti mette nelle condizioni di non sbagliare mai, però hai la grande fortuna di capire cosa vuole la gente. I tifosi devono sognare con noi, senza limiti. Resta comunque un gioco, e i sogni appartengono al gioco. Pensi sempre di poter migliorare. Pensare di poter provare a vincere si può fare”.
Se è un allenatore che mette in campo i giocatori secondo un modulo predisposto o si adatta ai giocatori che ha:
“Di base parto dal presupposto di disegnare un modulo sulla base dei giocatori a disposizione. Quando arrivi in corsa, diciamo che non hai tempo di fare ricerche, ma di fare punti. Quindi ho privilegiato il dare un certo equilibrio all’inizio. Se ho due esterni bravi nell’uno contro uno, è sempre 4-3-3 oppure 4-2-3-1. Se ho la mezza punta che ha l’abilità tecnica di trovare il passaggio per le punte, puoi pensare anche di giocare a rombo. Se poi hai un centrocampo di sostanza, allora devi cercare gli esterni che spingono”.
Su Biraschi che potrebbe giocare anche a quattro:
“L’ho proposto, si sta allenando e talvolta è un po’ la novità che infastidisce. Lui può fare quel ruolo in maniera un po’ più funzionale. Quando vai a disegnare una squadra, vai per forza a penalizzare un paio di giocatori, ma hai la responsabilità della squadra. Biraschi deve convincersi che può fare anche altri ruoli”.
Sulla sfida di rientrare ad allenare in Italia:
“Cosa mi ha convinto a tornare? Un po’ tutto, dal presidente Preziosi che era convinto all’ambiente passando per le difficoltà. E nello stesso tempo sognavo. Poi sono arrivato in una città dove si respira calcio, che ti mette pressione. A me piace la pressione: non mi tiro indietro e non ho paura. Appena sono arrivato qui già mi parlavano di derby. E mi sono detto: “bene così”.
“Non avrei mai voluto andarmene. Mi spinse a farlo il fatto che l’unica richiesta che ebbi strinsi la mano al presidente che non mantenne la promessa. C’era qualcosa che non andava: presi la valigia e cercai altre avventure. Avevo solo voglia di fare il mio lavoro”.
Sulla società Genoa che impedisce di sognare ai tifosi del Genoa:
“Bisogna assolutamente sognare. Il presidente mi ripete sempre che faremo cose importanti una volta ottenuta la salvezza, quando programmeremo qualcosa di importante. Finché non avrò smentite, continuerò a pensare questo. E continuo a sentirlo convinto di voler fare qualcosa di buono per questa tifoseria. Lo sento tutte le settimane, anche a metà settimana. Quando arriva qui, poi, vuol dire che ci tiene ed è coinvolto in un percorso fatto assieme. Vive sempre sui risultati, che ti danno la possibilità di affrontare i problemi con una certa visuale. Se li affondi con delle sconfitte, tutto diventa complicato”.
Sul derby come partita che può rendere meno discussa questa stagione:
“Ogni volta che se ne parla, mi cresce qualcosa dentro. Non so se sia ansia o altro. Diciamo che per adesso voglio pensare all’Udinese. Credo che sia l’unico vero derby d’Italia, con grande voglia di vincere l’uno sull’altro. Ma resta un derby in famiglia. Un derby che non vedo l’ora di vincere”.
Su Kouamè e la sua posizione spesso cambiata con Sanabria:
“Si cerca di capire un po’ le caratteristiche di questi giocatori ed è chiaro che in questo momento non dobbiamo inventarci nulla. Abbiamo proposto certe situazioni che non hanno dato il risultato che si voleva e abbiamo così riorganizzato il centrocampo cercando di sfruttare a pieno le caratteristiche differenti di questi due giocatori. Se Kouamè avrà la capacità di ripetere certe situazioni, allungando e accorciando le avversarie con intensità, non dovremo inventarci nulla”.
Su Romero e la sua crescita:
“Potenzialmente un ragazzo di vent’anni con queste attitudini non l’ho mai allenato. Gli serve a fianco un giocatore esperto che lo aiuti a capire i tempi e le situazioni, quando uscire e quando stringere. Se sia più bravo a giocare a tre oppure a quattro, per me, è un falso problema: a tre il campo si apre di più e giochi sui riferimenti, a quattro giochi di reparto. A tre esalti un po’ le capacità di marcatore, le doti individuali, però se i due marcatori non giocano la palla, diventa un problema. Romero può giocare a tre oppure a quattro senza problemi. Ha capacità di recupero, prestanza fisica, non ha paura e ha personalità. Deve imparare a velocizzare un po’ di più il gioco e l’azione e deve cambiare gioco senza vedere sempre un solo settore. Ci sono tante piccole cose in cui deve migliorare, ma la base è straordinaria”.
Sulla chiamata in Nazionale e le avventure in Turchia e Spagna:
“Mai avrei pensato di andare a fare il commissario tecnico, ma quando mi hanno chiamato ho detto “sì” senza porre condizioni. Che differenze sostanziali ho trovato nell’allenare in Turchia? Là il calcio è sentito in maniera quasi violenta ed è avvertito come un problema sociale. Quell’anno c’erano pochissimi tifosi perché volevano riorganizzarsi a livello d’immagine. In Spagna la mentalità è completamente differente. Allo stadio arrivi senza scorta, c’è rispetto degli avversari e arrivi allo stadio senza scorta. Se giochi bene ti applaudono, se giochi male prendono un fazzoletto e ti contestano. Ma la mentalità è totalmente diversa”.
Sull’omosessualità nello sport e nel calcio:
“Quando sei commissario tecnico trovi giornalisti che non arrivano solamente dal mondo dello sport, ma anche della cultura e dei fatti sociali. A domanda, si risponde. E si risponde da persona normale che affronta problemi che tutte le persone affrontano”.
Su Sinan Gumus:
“L’ho allenato, era un ragazzino che arrivava dall’accademia tedesca. Molto tecnico, applicato, dalla buona corsa e dal buon mancino. Negli ultimi mesi non l’ho seguito in maniera dettagliata, ma lo conosco. Ha sempre giocato entrando in corso d’opera? Sì, ha un buon tiro, una buona attitudine mentale come tutti i ragazzi che arrivano dalla Germania”.
Sui cambiamenti da apportare a questa squadra:
“Domenica avevamo 6/7 giocatori Under 23. Forse era la squadra più giovane d’Italia. La base c’era. Le domande sui cambiamenti da apportare a questa squadra, però, vorrei spostarla fra qualche settimana. Ora dobbiamo vincere ancora qualche partita, arrabbiati come prima della Juventus, poi penseremo con serenità al futuro. Se mi vedo tanti anni in questa città, col Genoa? Ho sempre percepito una città particolare, da conoscere. Sembrano chiusi, ma se entri in sintonia sono aperti e generosi. Ho avuto la fortuna di fare i corsi a Coverciano col genovese Franco Ferrari, con cui ebbi una discussione su alcuni giocatori. Poi feci una domanda su El Shaarawy. Mi disse che i genoani erano così, bisognava dargli tempo. “Sono persone che poi non tradiscono” disse.
Conservo anche una frase straordinaria che ho letto e ricordato a Bagnoli. Sono rimasto sorpreso perché ha una figlia non vedente, che disse che quando andava allo stadio aveva sempre emozione, ma che le emozioni provate al Ferraris non le aveva mai avute da nessuna parte. Bagnoli mi disse che glielo raccontava sempre. E mi ribadì che, se fosse rimasto a Genova, avrebbe vinto lo scudetto. Mi disse che non sarebbe dovuto andare via”.
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