C’era una propaggine politica sul mondo del pallone che aveva fatto capolino ad inizio luglio ed era quella legata agli sgravi fiscali che avrebbe prodotto l’acquisto di giocatori dall’estero per i club italiani. Infatti, i club di casa nostra avrebbero pagato le tasse solamente sul 50% del valore di un contratto. Non più sul 100%. L’idea era quella di rendere appetibile a lavoratori e professionisti attivi all’estero da anni di venire – quando non tornare – in Italia. Un po’ cervelli e piedi in fuga, un po’ profili che si vogliono giocare le proprie chance nello Stivale.
Il calcio, in questo ambito, rappresentava un settore marginale, ma non per questo da sottovalutare. Ad una settimana dalla fine del calciomercato scopriamo che di questi sgravi fiscali la Serie A non ha abusato, tesserando di fatto l’8% in meno di stranieri rispetto alle stagioni passate (65). Meno stranieri non significa solamente una prospettiva più italiana (vincente solo se si punterà davvero con coraggio su qualche giovane in più che anche Mancini possa eventualmente apprezzare), ma anche che dove si è andati a pescare, si è andati a botta sicura. Specialmente in Danimarca, Olanda e Belgio. Tenendo sempre conto che larga parte dei calciatori stranieri arrivati negli anni passati si trova ancora in Serie A.
Sono state diverse le operazioni dall’estero. Alcune sono state occasioni di mercato colte al volo, come Schöne al Genoa o Ribery alla Fiorentina, mentre altre sono colpi di valore che hanno allargato e non poco le maglie dei portafogli. Lukaku all’Inter è l’esempio che vale su tutti gli altri, anche se le due reti facili facili messe a segno nelle prime due giornate non confermano certo la cifra che si spenderà. Infatti, il vero dilemma che il campionato comincerà a chiarirci con maggiore certezza da venerdì in poi è se questi innesti abbiamo alzato davvero la qualità del campionato italiano. Se non ci si fa prendere dall’euforia e si considera che da settant’anni non si segnavano così tante reti nelle prime due giornate, qualche dubbio rimane.
E per chi è più ottimista sarà solo merito dei reparti offensivi, per chi è più pessimista – o semplicemente analitico – sarà un calderone di componenti: fasi difensive da rivedere, differenza di preparazione estiva, maggiore predisposizione ad un gioco europeo e offensivo. Gli innesti dall’estero possono aver dato una mano, soprattutto in termini di fisicità e mentalità, ma 180’ non bastano a delineare un quadro completo della situazione. Ora serve piuttosto capire a cosa corrisponderà una Italia in continua crescita negli esborsi finanziari sul calciomercato (1 miliardo e 500 milioni nelle ultime 10 stagioni secondo i precisi rilevamenti del CIES Football Observatory, specialmente orientati verso Spagna e Inghilterra) e cosa ciò porterà in termini di gioco, spettacolo e, soprattutto, risultati.
Sappiamo che ci siamo messi al passo della Spagna in questi ultimi anni, almeno in termini di prezzi dei cartellini pagati, ma che ancora siamo parecchio lontani dal modello inglese, quello che ha portato quattro squadre in finale di Champions ed Europa League nell’ultima stagione che e assicura almeno 100 milioni di euro anche a chi retrocede dalla Premier League alla Championship. Cifre folli, mica da ridere, frutto di una ripartizione dei diritti tv molto più equa e di stadi pieni ogni giornata perché messi a servizio dei tifosi. Non è un mistero che oltre la Manica destinino spesso alla crescita dei settori giovanili e delle strutture buona parte di queste somme, attraendo nuovi investimenti. Un po’ come accaduto al Tottenham, che oggi in uno dei quartieri più periferici di Londra ha incastonato il nuovo stadio, un diamante a cielo aperto. E forse è proprio qui che sta la grande differenza: quello degli investimenti nelle strutture e nei giovani è il grande ambito in cui accelerare vista anche l’alta professionalità dei tecnici che lavorano nelle scuole calcio e nei settori agonistici delle squadre italiane.
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