Dopo il saldo di +193 milioni tra prezzi di cessione e acquisto di giocatori in casa Genoa, il CIES Football Observatory continua la sua analisi del decennio che sta per concludersi e lo fa in termini statistici e numerici, quelli che ti inchiodano alla realtà. Da quanto emerge dal report (in fondo l’allegato originale), il Genoa sotto la gestione Enrico Preziosi negli ultimi dieci anni si colloca al primo posto per numero di calciatori passati da Pegli e schierati almeno una volta in campo.
Un dato altisonante, peraltro particolarmente roboante se lo si confronta con quello di altre società, che certifica un operato compulsivo in sede di calciomercato. Una tra le principali cause di mancata pianificazione di un barlume di progetto tecnico. Un dato che si amplificherebbe ulteriormente se si considerassero i giocatori che non hanno mai giocato una gara in Serie A. I Lakicevic della situazione, tanto per prendere due nomi agli antipodi tra 2010 e 2019.
Secondo i dati elaborati dal CIES sulle squadre che negli ultimi dieci anni hanno giocato sempre nei rispettivi massimi campionati, il Genoa è al primo posto per numero di giocatori schierati tra 2010 e 2019 (205 per l’esattezza) e viaggia ad una media di oltre 20 volti nuovi a stagione sul rettangolo verde. In altre parole, una costante rivoluzione impostata in estate e proseguita in inverno, con giocatori che spesso hanno soggiornato per sei mesi – un anno al massimo – sotto la Lanterna per essere poi puntualmente ceduti.
Il giocatore con più minuti giocati in maglia rossoblu dal 2010 ad oggi è stato Mattia Perin. Una percentuale molto bassa quella del 38,8% considerato che in Europa, ancora una volta, il Genoa è nei bassifondi: penultima squadra dopo il Nizza col suo ex David Ospina (oggi al Napoli) ad avere un giocatore fortemente radicato nel progetto tecnico dell’ultimo decennio (o di almeno larga parte di esso). Parliamo di un trend che ha inesorabilmente influito sui risultati sportivi.
Non ci si deve stupire. Del resto, come avevamo già scritto a suo tempo, l’ultimo bilancio approvato lo scorso 29 aprile riportava che le plusvalenze avrebbero rappresentato un obiettivo stagionale anche per l’annata 2019/2020 del Genoa. Vi era nero su bianco la dicitura (pagine 76-77) di “un piano di mercato che garantisca plusvalenze da cessione in linea con le performance degli anni precedenti“.
Una costante rivoluzione. In dieci anni le soddisfazioni sportive in casa Genoa sono progressivamente precipitate dal saltuario all’inesistente, con la sola eccezione della stagione 2014/15 culminata con la qualificazione in Europa League subito offuscata dalla nota vicenda della licenza UEFA. Al secondo posto di questa graduatoria troviamo un’altra italiana, la Fiorentina, con 161 calciatori differenti. Al terzo posto il Siviglia con 160, che pur cambiando molto ogni stagione ha vinto in questa decade tre Europa League di fila (2013-2016) e una Coppa del Re.
Sorprende forse che, in questa particolare statistica, le formazioni inglesi siano tra quelle ad aver cambiato meno nell’ultimo decennio? Certo che no, considerato che la Premier League è il campionato più equo in termini di ripartizione dei diritti televisivi, ma soprattutto è quello dove le società acquistano di più a titolo definitivo, sborsando cifre anche molto alte – spesso esagerate – per un singolo giocatore purché sia ritenuto funzionale al progetto. Come logica imporrebbe.
Quello che non si fa abitualmente al Genoa, e così in altre società. Un po’ perché in Italia hanno tenuto banco troppo a lungo meccanismi di prestito e comproprietà, un po’ perché l’acquisto a titolo definitivo non è mai andato per la maggiore in Serie A. Alla luce del +193 citato ad inizio approfondimento, lascia un po’ perplessi la cifra di 3,08 milioni spesi mediamente per acquistare un giocatore dal Genoa. Parliamo del settimo dato più basso in tutta Europa (e il più basso in Serie A dopo l’Udinese).
Visto il livello del campionato di Serie A, sceso notevolmente negli ultimi dieci anni, e visti i curriculum di chi è risalito ultimamente dalla Serie B, quest’anno molto più attrezzato, si è spesso riusciti a sopravvivere comunque a scelte tecniche sbagliate ed evitare la retrocessione. In Inghilterra, invece, è quasi matematico che una società che pianifica e opera male paga due volte: di portafoglio e di classifica. Infatti le rose vengono sistematicamente potenziate, ma si preferisce sempre garantire una continuità tecnica. Basti pensare a club meno blasonati, come il Leicester, che riescono a trattenere Vardy e Schmeichel da ormai svariate stagioni. Superano la quota di cento giocatori schierati tra 2010 e 2019 solo quelle squadre che alle spalle hanno facoltose proprietà come Liverpool (112) e Chelsea (103). Resta il fatto che nella top twenty del CIES non c’è nessuna formazione britannica e non è casuale. Compaiono solo formazioni italiane, spagnole, francesi o tedesche.
Rimanendo su questa statistica, il Genoa vanta un altro “record” nelle graduatorie del CIES. Si tratta del numero di nazioni di provenienza dei calciatori (36): i rossoblu risultano secondi soltanto alla Roma, che nell’ultimo decennio ha vissuto la transizione dalla famiglia Sensi all’establishment americano. Prima Dibenedetto (2011-2013), già patron dei Boston Celtics in NBA, e poi James Pallotta (dal 2013) si sono succeduti alla guida del club giallorosso conferendogli un input deciso verso l’estero molto maggiore rispetto al passato.
Saranno anche numeri allo sbaraglio, però ben fotografano, partendo da lontano, l’attualità calcistica nazionale ed europeo. Nel panorama attuale ricoprono un ruolo esageratamente potente i procuratori, la cui mansione è spesso quella di proporre non ciò che serve a livello tecnico, ma ciò che serve al portafogli. Un andazzo che spesso inibisce il lavoro dei settori giovanili, che crescono giocatori pronti per le prime squadre. Pronti per diventare innesti a costo zero e con grande senso di appartenenza, come accade già a Genova. Rimanendo sui colori rossoblu, il CIES evidenzia che, malgrado i risultati in crescendo del vivaio rossoblu negli ultimi dieci anni, il club di Villa Rostan ha schierato solamente il 7,6% di giocatori allevati nel proprio vivaio. In questo dato è l’ottava peggiore società in Europa, la sesta in Serie A dopo Inter (2,8%), Udinese (3,6%), Lazio (4,2%), Fiorentina (7%) e Napoli (7,6%).
Significa, in altre parole, che per vedere un esordio in prima squadra di un giocatore cresciuto per almeno tre anni nel settore giovanile rossoblu (fra 15 e 21 anni, ndr) deve passare all’incirca una stagione e mezza. E significa altresì che dei già segnalati 205 giocatori, soltanto 15 o 16 sono cresciuti nel settore giovanile. Si possono quasi contare sulla punta delle dita: Perin, Zima, Sampirisi, Criscito, Boakye, Mandragora, Sturaro, Pellegri, Salcedo, Ragusa, El Shaarawy, Krajnc, Cofie, Ghiglione e Panico. Nomi ai quali aggiungere da sabato quello di Nicolò Rovella.
In totale controtendenza club come l’Athletic Bilbao, a forte caratterizzazione basca e spagnola. Negli ultimi dieci anni la squadra dei Paesi Baschi ha schierato giocatori stranieri per un 3,7%. Una percentuale che fa riferimento a due soli giocatori: l’uno proveniente dal Venezuela (Fernando Amorebieta), l’altro dalla Francia (Aymeric Laporte). Inoltre, l’Athletic Bilbao ha puntato per un 61,3% su giocatori prodotti nel vivaio, schierando solo 77 giocatori differenti tra 2010 e 2019. Un ricambio minimo, ogni anno, che è fruttato comunque un +113 milioni di fatturato, diverse finali di Europa League e un successo nella Supercoppa di Spagna.
E le conclusioni a cui è arrivato il CIES in fondo al proprio report? Molto semplici, ma veritiere, ovvero sia che “l’analisi delle strategie di composizione durante l’ultima decade mostra come, sebbene il denaro sia più che mai un fattore chiave, entrino in gioco altri fattori. La stabilità di una rosa dipende infatti da un una buona pianificazione strategica, così come l’abilità dei club di tirare fuori il meglio dai talenti allenati nei loro settori giovanili e stimolare un forte senso di appartenenza in tutte le parti interessate (giocatori, staff, tifosi) rimane un criterio cruciale per il successo, anche nell’odierno quadro di sviluppo iper-commerciale e globalizzato“. mr50en
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