Uscita questa mattina in versione integrale nell’edizione cartacea del Secolo XIX, la lettera del tecnico rossoblu Davide Nicola è stata diffusa pochi minuti fa dal sito ufficiale del Genoa. “Non è il mio campo” – esordisce la lettera del tecnico piemontese, che come tutto il Genoa, dai giocatori alla dirigenza, sta osservando con rigore e attenzione tutte le direttive imposte dal Governo italiano per contrastare l’emergenza coronavirus. “Quello riaprirà tra qualche tempo, quando tutti potremo lavorare in sicurezza. Un giorno ci daranno la notizia che aspettiamo da tempo. E noi aspettiamo con fiducia.

Non è il mio campo, però è il nostro mondo. Per questo credo sia giusto rispondere a chi mi chiede quali siano in questo momento i pensieri del cittadino, Davide Nicola, l’uomo della strada, quando in strada si potrà tornare a passeggiare e a giocare, senza mettere a rischio la salute di tutti e la nostra.

Io faccio anche l’allenatore del Genoa, ed è per questo che mi conoscono. Prima ancora ho fatto il calciatore, per passione e professione. In entrambi i casi ho iniziato a camminare con passo più sicuro quando ho scoperto e compreso l’importanza di sapersi adattare: “Prima ti adatti, più lo fai con lucida convinzione, meglio diventi operativo ed efficace”, mi dicevano. Eppure qualcosa non tornava.

Per adattarsi serve tempo, e di ciò non se ne può fare una colpa a nessuno. Perché il tempo è ciò che scandisce la nostra vita e ciascuno viaggia ad un suo proprio ritmo.

È servito tempo per capire la reale portata di questa pandemia. Per comprendere che passeggiare per strada, baciare i propri figli, esultare dopo un gol, stringere la mano a un amico sarebbe diventato un gesto da evitare. Sbagliato. Dannoso.

Per uno sportivo professionista il concetto di adattamento è molto interessante. Perché l’adattamento, lo abbiamo già detto, è una richiesta di tempo: tempo per adattarsi a una città, a un nuovo allenatore, ad altri giocatori da allenare, a compagni diversi, schemi mai provati prima, stadi, avversari, sfide che cambiano per novanta minuti. La gestione del recupero dopo il novantesimo.

Adattarsi è sincronizzare la tua velocità con ciò che accade attorno a te. Fino ad essere tu stesso a determinare gli eventi, invece che attraversarli o subirli.

Ebbene, in questo percorso di adattamento noi non siamo soli. O almeno, il punto non è fare la corsa su se stessi. Perché quello è un altro sport.

Noi – conglomerato di atomi, individui, amici, coppie, famiglia, collettività, civiltà, specie, esseri viventi – siamo nati per fare squadra.

E in una squadra, l’adattamento è sempre un risultato del gruppo: ciò vuol dire che chi è avanti deve guardarsi indietro, tendere la mano ad un compagno e portarlo a sé, compensando e rispettando la sua specifica richiesta di tempo. Una volta fatto ciò, in due sarà più facile supportare un terzo, un quarto e così via.

Fare team è rispettare le esigenze dell’altro, perché solo così, l’altro ascolterà le nostre e nessuno rimarrà indietro.

A volte credo che vivere uno sport di squadra sia stato per me un dono, ma anche una propensione naturale. Il calcio mi ha insegnato che il gruppo è sempre maggiore della somma dei singoli, e che per crescere e migliorarsi come individui bisogna ricercare e ricreare nel “noi” più che nell”io”, quelle esperienze solidali che proteggono ed elevino il gruppo.Il nostro campo é la Terra e non ha confini.

Ce lo sta insegnando questo nemico micidiale ed invisibile. É un virus, corre veloce: per sconfiggerlo ci vuole tempo, ovvero capacità di adattamento, alias… come e quanto ciascuno di noi supporti l’altro.

Non abbiamo difese, ma siamo in partita: sette miliardi di persone, tutti in campo a supportarci, tutti titolari.

Un gran bel team: non è così…?

Davide Nicola


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