Il concetto di media company entra di prepotenza nel calcio italiano. Ieri quindici società su venti, senza nessun voto contrario ma cinque astensioni che sanno di “silenzio assenso”, hanno aperto all’ingresso dei fondi nel calcio italiano. A ridosso del mese di dicembre verrà formalizzata l’offerta di CVC, capotreno di un tris di fondi (CVC, Advent e FSI) che acquisiranno il 10% della media company che si occuperà di implementare il valore della Serie A. Le cifre sono già chiare: 1,6 miliardi di euro e un acconto di 1,1 miliardi che andranno a sostenere le casse delle società di Serie A.
Una boccata d’ossigeno dopo l’ennesimo calciomercato fatto di prestiti e la realtà, assai poco funzionale per la gestione corretta di un’azienda, di rose chilometriche che arrivano spesso a sfiorare 35/40 tesserati. Sulla sfondo il Covid a stringere ancora di più le maglie del calcio italiano.
Ma cos’è una media company? In poche parole, si tratta di una vera e propria compagnia, con la sua governance e i suoi uomini di riferimento, che ha come vocazione quella di valorizzare un brand (in questo caso la Serie A) attraverso i contenuti (le partite) e la promozione online e su differenti piattaforme dei contenuti stessi. Tanto semplice, quanto complicato.
La decisione di legare a doppio filo la Serie A al meccanismo dei fondi – che investiranno tanto per avere prima o dopo un ritorno – è tanto storica quanto inevitabile. Il fatto che i presidenti di Serie A, più o meno pubblicamente, abbiano deciso di puntare tutte le fiches sull’offerta di CVC-Advent-FSI è poi sintomo di due cose.
In primo luogo di una presa di coscienza della loro conduzione profondamente sbagliata negli anni passati, basata su bilanci in quasi costante peggioramento (salvo qualche eccezione), su un meccanismo del calciomercato-show che ha portato all’esagerazione le valutazioni dei calciatori e su scarsi e rari investimenti di quanto incassato sulla crescita delle società, degli impianti e della tutela dei tifosi che ancora decidono di gustare e godere del calcio “in presenza” negli stadi.
In secondo luogo, questa decisione è stata sintomo del crescente ritardo creatosi tra Serie A e campionati europei. È bene non dimenticare che, malgrado il Covid, quest’anno anche la Ligue 1 francese ha dato una sonora sterzata ai suoi introiti dai diritti tv (è passata da incassare 762 milioni di euro a stagione a 1,15 miliardi grazie a MediaPro, ndr) e si è avvicinata alla Serie A, portandola alle soglie del quinto posto tra i maggiori campionati europei. Avanti per distacco rimangono Premier League, Bundesliga e Liga spagnola. Occorreva una mossa diversa e questa mossa è stata fatta dicendo “sì” ai fondi di private equity.
Adesso la palla passa nelle loro mani. Il calcio italiano vivacchierà ancora per un mese, in attesa che venga stilato il contratto definitivo. Poi si apriranno le valutazioni sulla nuova governance, che prevederà di avere al suo interno una rappresentanza nutrita della Lega Serie A. Tradotto: sarà una corsa tra presidenti e dirigenti a conquistarsi le poltrone in palio. La speranza è che le “lotte di potere” non si trasferiscano da via Rosellini ad altra sede, perché nel passaggio di testimone dello sviluppo mediatico della Serie A nelle mani dei fondi risiede anche la speranza che le frizioni tra società e presidenti possano finire e si mettano al centro gli interessi dei veri e indispensabili fruitori del calcio: i tifosi. E non soltanto come fruitori di contenuti video o social, ma anche come frequentatori di stadi e partite. Deserti, come negli ultimi mesi, gli impianti sportivi mettono profonda tristezza.
Una volta insediatasi la media company e incassato l’acconto, sarà tempo di capire come valorizzare il brand della Serie A. E qui verrà il bello perché alibi non ce ne saranno più. Sarà creato quel tanto ventilato canale tematico? A quali paesi si aprirà il campionato italiano? La media company a chi rivenderà (e con quali suddivisioni e costi) i pacchetti dei diritti televisivi? La stagione 2020/2021, già viziata dal Covid, sarà quindi l’ultima a rispondere al vecchio regime delle pay tv, acuito dalla chiusura degli stadi.
Di sicuro le partite in televisione non scompariranno e diminuiranno, anzi è possibile il contrario. Il futuro, però, è pronto a parlare con ancora maggiore forza di partite viste su smartphone e computer, su piattaforme in espansione e consolidamento come Amazon (o la stessa DAZN). Più scelta, più piattaforme e un canale tematico di cui fruire anche a posteriori, dopo aver vissuto la gara allo stadio. Perché di stadi vuoti ne abbiamo abbastanza.