Cambiare tutto perché nulla cambi. Ultimamente alla Serie A torna spesso di conforto questo passaggio del Gattopardo, che ben raffigura come l’unità d’intenti tra i presidenti sia quasi totalmente assente e come l’interesse primario dei club, in quanto aziende dagli altissimi costi, sia la tutela dell’ultima tranche dei diritti televisivi.
Se non si facesse questa premessa, non ci si spiegherebbe come mai, soltanto 48 ore fa, sia stata votata quasi all’unanimità (15 club su 20, ndr) la data del 13 giugno per ripartire col campionato e già il giorno successivo sia esplosa di nuovo la guerra contro un protocollo le cui linee guida sono note da settimane. Note, ma troppo farraginose.
Serviva una data – ed è ormai chiaro – per contrattare con più forza al tavolo coi broadcaster. La medesima mossa intrapresa dalla Bundesliga, con la sola differenza che i tedeschi si mossero un mese fa fornendo garanzie chiare fin dall’inizio e dando accesso contingentato alle tv sin dai primi allenamenti. Un “contentino”? Senz’altro, ma un contentino strategico servito ad incassare quasi 300 milioni di euro prima ancora che il prossimo weekend ripartano le gare ufficiali. Non sono mancate le polemiche, neppure in Germania, ma alla fine si è remato tutti nella stessa direzione confrontandosi con tutte le parti in causa.
Oggi, sfogliando la Gazzetta dello Sport, un sottotitolo è estremamente ordinato e preciso nel circoscrivere dove risiedano gli argomenti di scontro tra club e protocollo, tra società e Spadafora: niente quarantena di gruppo in caso di positività, abolizione dei ritiri e no alla responsabilità penale dei medici. Solamente risolvendo questi tre nodi, tutt’altro che facili da dirimere, la Serie A avrà il semaforo verde. Altrimenti pensare ad una ripresa è dura. E pensare ad una ripresa, anche dopo alcuni approfondimenti di questa mattina coi primi “spifferi” sulle linee guida per la ripresa delle attività produttive e degli esercizi commerciali, è davvero complesso.
Guardando al quadro nazionale, dove l’emergenza ha mietuto oltre 31mila morti, il massimo che si è riusciti a fare, in vista del prossimo lunedì, è prevedere che un contagiato da Covid-19 sia un infortunato sul lavoro con responsabilità del datore di lavoro. Un po’ come i medici del calcio o di qualunque altra disciplina, senza linee guida da seguire e con una responsabilità totale sulle spalle. Insomma, uno scaricabarile in assenza di programmi di rilancio chiari.
In Germania questi problemi li hanno aggirati. Come? Intanto affidando la discussione tra calcio e governo ad una task force assai più limitata e capitanata dal Dottor Tim Meyer, il medico della nazionale tedesca. Sui controlli c’è stato un accordo con alcune cliniche private e una richiesta di test che inciderà per lo 0,4% sul fabbisogno nazionale, con giocatori controllati al massimo due volte a settimana e prima di ogni partita all’interno delle strutture esclusive nelle quali alloggiano staff e giocatori secondo linee guida rigide.
C’è poi il nodo degli allenamenti: qui non si è stati esageratamente sofisticati, ma si è badato alle questioni pratiche affidandosi alla responsabilità dei singoli. Mentre in Italia il distanziamento cambia di svariati metri se si va a messa, al supermercato, dalla nonna oppure se si scende su un campo di calcio particolarmente esposto al vento, in Germania la sintesi è ben diversa. La linea da seguire è una sola e con poche variabili.
“Sul campo di allenamento non ci sono misure specifiche – ha dichiarato Meyer in una recente intervista al sito ufficiale della Bundesliga – quindi l’allenamento viene condotto come al solito, ad eccezione delle bottigliette per bere che vengono utilizzate separatamente da un giocatore e dovrebbero essere portate da casa, se possibile. Al di fuori del campo, ci assicuriamo che nel spogliatoi vi sia abbastanza distanza tra i giocatori e nelle docce ci siano solo pochissime persone alla volta. Inoltre, vengono forniti disinfettanti e sapone e i giocatori si dirigono all’allenamento con la propria auto, e non in compagnia di altri. Insomma, un insieme di misure intorno al campo di allenamento, ma non sul campo di allenamento“.
Se un giocatore viene trovato positivo, la decisione non è univoca. Per dirla in altre parole, non si va tutti in quarantena in maniera automatica, ma è l’autorità sanitaria tedesca – che manleva dunque i medici sociali – a decidere per chi è venuto a contatto col giocatore positivo. “Quando un giocatore risulta positivo a tampone in gola, le autorità sanitarie vengono automaticamente avvisate. Questo meccanismo è regolato dalla legge tedesca e le autorità sanitarie locali decidono in merito alla gestione di ogni singolo caso. In genere, la persona infetta viene messa in isolamento e quindi le autorità sanitarie iniziano a ricercare quali persone siano state in stretto contatto col giocatore testato positivamente”.
“Le persone venute a contatto sono classificate in contatti ad alto rischio e contatti a basso rischio – ha chiarito lo stesso Meyer – e quindi la decisione finale sulla gestione del caso è fornita esclusivamente dalle autorità sanitarie“. Come si valutano “alto rischio” o “basso rischio” è estremamente semplice: sulla base della distanza mantenuta tra uno o più soggetti, tra un positivo e la sua più recente rete di contatti. Se vi è stato il rispetto delle distanze, una persona venuta a contatto con un positivo è più semplice sia considerata a basso rischio di contagio (e non andrà in quarantena). E viceversa.
Se vengono violate le quarantene e i ritiri, che sono obbligatorie prima delle partite, può succedere che si decida di autosospendersi, come accaduto al tecnico dell’Augsburg, Heiko Herrlich, che abbandonando l’hotel dove alloggia la sua squadra (ogni società ne ha predisposto uno ad hoc) per comprare un dentifricio, ha ammesso il proprio errore e domani non siederà in panchina contro il Wolfsburg. Tornerà ad allenare sul campo solo dopo essersi sottoposto a doppio tampone negativo. Non era positivo, ma lo si testerà comunque prima che possa tornare in campo.
Un pizzico di buonsenso in più arriva anche dall’Inghilterra. Gli inglesi poco a poco ci stanno superando: ancora manca loro un protocollo per il campionato e molte sono le regole che si vorrebbero introdurre, come l’ammonizione per chi andasse a muso duro con un avversario oppure per chi dovesse sputare in campo. Se non altro, però, i calciatori inglesi si allenano individualmente da settimane e dal primo giugno sanno di poter ripartire con la Premier League. Proprio questa mattina l’Independent affronta un tema centrale per uno sport di contatto: ma se alcuni studi di STATSports, fornitore di sistemi GPS per la maggioranza dei club inglesi (in Italia per Roma e Juventus), riportano che per contrarre il coronavirus ci vuole un contatto di almeno quindici secondi, perché non ci si può allenare a gruppi se uno mediamente in Premier League ne dura 3,3?
Una domanda lecita che farà discutere e che, nel frattempo, permetterà ai club di provare a forzare la mano coi calciatori, perché il fronte britannico dei giocatori è sulle barricate. Sono tanti i calciatori della Premier League, espostisi più che in tanti altri campionati, ad aver fatto capire di avere paura di ripartire. Lo hanno ribadito in conferenza mercoledì scorso i capitani delle venti squadre: servirà convincerli che si possa ricominciare in sicurezza, altrimenti la Premier League non riparte. Questo è sicuro.
In un marasma simile a quello italiano piomba continuamente anche la Spagna. L’ultimo scandalo in ordine di tempo sarebbe quello legato alle accuse di corruzione contro il presidente del sindacato dei calciatori spagnolo (AFE), David Aganzo, che avrebbe pagato “per ottenere illegalmente dall’Agenzia delle Entrate documentazione fiscale di Futbolistas On (un sindacato parallelo, ndr)”. Si parla di informazioni “che sarebbero state ottenute mediante pagamento a un pubblico ufficiale“, spiega il quotidiano sportivo MARCA fornendo anche la documentazione in proprio possesso. Uno scandalo che inevitabilmente, avrà ripercussioni sulle prossime decisioni. I giocatori, infatti, sono in rivolta contro l’attuale presidente: ne chiedono la testa e l’avvicendamento con l’ex attaccante Fernando Morientes. Un clima tutt’altro che disteso per valutare la data migliore per ripartire.
Gli allenamenti sono da tempo ripresi in Liga, evitando il ritiro forzato dei calciatori in qualche struttura esclusiva. Qualche squadra poco a poco sta ritrovando giocatori precedentemente contagiati, ad esempio Renan Lodi dell’Atletico Madrid, e qualche altra, come l’Eibar, ha scoperto negli ultimi giorni nuovi tesserati positivi. Il meccanismo varato dalla Federazione non prevede quarantene di gruppo, ma immediato isolamento.
Oltretutto il protocollo spagnolo prevede un conteggio differente rispetto ad altre leghe: si viene inseriti nella lista dei giocatori testati come positivi solamente se si risulta positivi alla PCR (proteina C reattiva, segnale di un’infiammazione in corso nell’organismo), non ad un singolo test sierologico, che invece individua la presenza di anticorpi. La logica di questa differenziazione è semplice: nel primo caso si risulterebbe più contagiosi per gli altri, nel secondo caso meno. Sulla base di questa distinzione, a fronte di un maggior numero di positività comunicate in forma anonima dai club, lo scorso 10 maggio una nota ufficiale della Liga comunicava che dopo la prima fase di test “erano stati rilevati 5 casi positivi nei giocatori, tutti asintomatici e nella fase finale della malattia“. Dopo le rilevazioni, il destino dei cinque calciatori è stato molto chiaro: isolamento domiciliare fino a doppio test negativo, familiari testati a loro volta e possibilità di continuare ad allenarsi a domicilio.