Finché dura vuol dire che sei un artista”. La citazione è di casa Ballardini e andrebbe benissimo per descrivere qualsivoglia passione che leghi l’uomo al proprio lavoro. Si tratta di una citazione di quelle che indicano una spontaneità mai nascosta e, a Genova, essere spontanei e chiari è cosa particolarmente gradita. Tra le righe di tutto quello raccontato questa mattina è la frase che meglio può fare da titolo al resoconto di quanto spiegato in oltre un’ora e mezza di lezione frontale dall’attuale tecnico rossoblu nei locali del CONI in via Padre Santo. Si sono rievocate finali di Coppe intercontinentali fra Milan e Medellin, fra Sacchi e Maturana; si sono rispolverati episodi del recente passato del tecnico rossoblu; si sono susseguite piccole pillole di quello che è il calcio visto da Ballardini, che senza mezze misure dirà, in apertura, “di c’entrare poco con questo mondo del pallone“.

Una lezione sincera e “leale” che fra abbracci con ex calciatori allenati, come Sorrentino prima della partita di domenica scorsa col Chievo, ed esempi e domande è partita da lontano, dall’inizio della carriera di mister Ballardini attraverso le giovanili di Milan, Parma e Cesena passando per la prima esperienza in una prima squadra con la Sambenedettese dei vari Cigarini, Canini, Gazzola, Leon (“calciatore pazzo, ma con me alla Sambenedettese rilanciò la sua carriera“). Il punto di arrivo, ancora una volta, è stato il Genoa che oggi allena per la terza volta in carriera. Ma non chiamatela solo carriera: chiamatela lavoro, passione, un “delectando docere”. Così il tecnico rossoblu si è rimesso a nudo ancor di più. Ecco alcuni dei passaggi più importanti della sua lezione alla presenza degli addetti ai lavori del giornalismo sportivo locale e nazionale.

Sul mondo del calcio attuale in cui lavora:

Credo di c’entrare poco con questo mondo del calcio: parlo del mondo della Serie A, che è un mondo diverso rispetto ad altre categorie. Io parto dal settore giovanile, e l’ho fatto sino ai 40 anni. Ho fatto 10/11 anni fra Milan, Parma, Cesena, Bologna. Il mio amore per il calcio nasce da lì. Sono sempre stato molto leale con la mia passione e ho puntato sempre molto alla mia persona, dando molto alla mia passione e al talento che si ha: per me significa pensare tutto il giorno, o comunque avere sempre il pensiero rivolto al proprio lavoro, alla crescita dei giocatori, alla loro formazione. Perché si è maestri per la crescita di ogni ragazzo come uomo in tutti i vari aspetti. Il mio lavoro e la mia persona mi impongono di sapere sempre come stanno i miei calciatori, se va tutto bene. Deve essere così, come deve essere così che un giocatore, se non è d’accordo con me, me lo dica: può essere che io non abbia ragione. E abbia anzi ragione lui“.

Sul suo rapporto coi media:

Ho sempre dato poca importanza al rapporto coi giornalisti. È un settore di cui non mi sono mai curato, ma nel senso di avere rapporti che magari mi potessero portare delle agevolazioni. Io vado tranquillo perché so che esistono principi e strategie. L’allenatore che allena ed è anche personaggio pubblico è strategico nei rapporti coi media. Da fuori penso che al giorno d’oggi i giornalisti facciano parte di una categoria che si sta sempre più evolvendo. Chi parla di calcio dice comunque cose sensate. Non è come anni fa quando fra tecnico e giornalista c’era rispetto e si era meno tecnici. L’errore per me sono le amicizie, le simpatie che si creano nel nostro mondo: condizionano il lavoro del giornalista.

Questo succede anche a me, tuttavia domando sempre di restare nei miei confronti molto oggettivi, puliti, senza essere condizionati. L’amicizia, la simpatia o la frequentazione del giornalista con l’allenatore credo condizionino il lavoro: dovete sempre rimanere obbiettivi, sinceri, leali. Per me è importante la lealtà, non la fedeltà: per me questo significa che, anche se mi sei amico, devi criticarmi se necessario. È una forma per far riflettere e crescere. Siate leali ma liberi. La libertà del resto è una conquista. Gli allenatori sono davvero poco, poco liberi di dire quanto pensano. Io per lo meno non lo sono quasi mai. Bisogna infatti stare molto attenti a quello che si dice. Col tempo, giorno dopo giorno, questa libertà la si deve riconquistare. Io sono molto limitato a livello televisivo e fino a qualche anno fa non guardavo neppure le trasmissioni sportive. Sono un po’ provinciale, un po’ “orso”: ma a me piace come sono fatto e non mi disturba affatto vivere così. Inciderebbe anche sul guadagno di un allenatore essere così e sarebbe un valore aggiunto essere “televisivissimi”.

Sulla sua carriera:

Cominciai ad allenare una prima squadra come allenavo le squadre del settore giovanile. Fra una prima squadra e una Primavera non c’è poi così tanta differenza. Ci sono i dirigenti che ti mettono più pressioni o i media che sono più attenti al tuo lavoro. Ma i tuoi principi, i rapporti che hai coi giocatori e la pianificazione della settimana di allenamenti, non cambiano molto.

Diciamo che nasco dal settore giovanile dove spesso ho fatto il responsabile. Al Milan, al Parma e al Cesena. Con Baresi (al Milan, ndr) l’indirizzo erano il 4-3-1-2 oppure il 4-3-3 con tre giocatori molto offensivi e mezze ali capaci di attaccare con la palla. Poi due terzini capaci di fare le due fasi. Questa era l’impostazione, dagli esordienti fino alla Primavera. Le sedute d’allenamento avevano più o meno tutte lo stesso canovaccio: riscaldamento tecnico; parte centrale di gestione e possesso pallone; partite a tema; partitella finale. Tutte le squadre del settore giovanile del Milan mantenevano questo canovaccio. C’era anche una parte fisica del 15/20% nella parte iniziale della settimana. L’obiettivo era far crescere il ragazzo dal punto di vista tecnico e tattico: si dovevano acquisire personalità individuale, personalità con la palla individualmente e, infine, nella gestione del pallone coi compagni con la direzione del gol. 

Nel 2004 ero al Parma dove l’indirizzo più o meno rimaneva quello: vi era Sacchi come direttore tecnico, ed io ero responsabile e allenatore della Primavera. Gabriele Zamagna era direttore sportivo del settore giovanile. Stettì per 3 anni al Parma, ma poi a fine agosto 2004 un procuratore (D’Ippolito, ndr), che aveva giocatori lì al Parma, acquistò la Sambenedettese da Gaucci. A quel punto aveva bisogno di un allenatore giovane che allenasse calciatori giovani. Portai 7/8 giocatori dal Parma tra i quali Cigarini, Gazzola, Favaro, Zanetti ma anche Canini, Spadavecchia e altri. Continuai la mia carriera mantenendo sempre gli stessi principi: quello del rapporto umano col ragazzo per sapere come viene al campo la persona, se ha problemi a casa con la fidanzata o con la moglie. In campo mi piace poco parlare di lavoro, per me è un divertimento. Sono sedute d’allenamento dove ti impegni, fatichi: tuttavia parlare di lavoro…”

“In tal senso ricordo sempre mio nonno quando, mettendo io su famiglia, mi chiedeva come facessi a mantenerla. “Nonno, io alleno” gli dicevo. E lui mi rispondeva: “ma come fai a mantenere i tuoi figli?”. “Nonno, mi pagano”. “Vabè: finché dura vuol dire che sei un artista”. Per me infatti allenare è un’arte. L’allenatore per la passione e la curiosità che ha è sempre molto attento ai cambiamenti. E dovreste esserlo anche voi giornalisti con la vostra competenza: dovreste restare sempre aggiornati su questi cambiamenti”.

Sul suo approccio quando arriva in una nuova squadra:

Quando arrivo in una società parto dalla fine. Parto con un’idea, ma devo conoscere naturalmente le caratteristiche dei giocatori e inquadrarle alla svelta. Parto dal generale e valuto le qualità dei singoli e dico: “con questi giocatori la disposizione più adatta è questa”. Nelle sedute d’allenamento dispongo la squadra in quel modo. Per fare un esempio, alla Sambenedettese avevo Martini che era un attaccante alla Mertens che attaccava bene lo spazio e così giocavo col 4-2-3-1: Bogliacino dietro la punta, Amodio e Cigarini mediani. De Lolli a destra, mentre a sinistra ebbi da gennaio Leon: gran bel giocatore. Pazzo. Da lì riprese a giocare e riprese quota anche la sua carriera. Insomma, i giocatori dopo essermi fatto un’idea li metto lì e succede che poi vado a ritroso: dal generale passo ai reparti, procedo con l’incastrarli e poi arrivo agli individui. Il mio lavoro è partire dalla fine per poi arrivare indietro, cercando di migliorare il reparto offensivo insieme al centrocampo e alla difesa. E ancora incastro la difesa al centrocampo: e poi difesa e centrocampo con l’attacco. Ma sempre partendo dal generale”.

Il calcio di Ballardini e i suoi principi:

Poi c’è il mio calcio coi suoi principi: che quando difendi difendi, ma quando puoi attaccare devi attaccare. Per farlo ci vuole chiarezza nelle due fasi di gioco. E questo per me significa che:

  • devi dare tante soluzioni di gioco, quando hai la palla, a chi la ha (un mio allenatore diceva: “quando hai la palla puoi fare quello che vuoi, quando non la hai devi avere delle certezze e stare sempre al tuo posto”);
  • devi muoverti senza pallone;
  • devi attaccare lo spazio per arrivare il più velocemente possibile alla porta avversaria, perché c’è una direzione e bisogna che alla porta ci arrivi, in un modo o nell’altro;
  • devi attaccare con 5/6 giocatori mantenendo equilibrio;
  • devi fare una fase difensiva partendo dagli attaccanti, che danno forza al centrocampo e alla difesa nella riconquista del pallone e permettono di difendere correndo in avanti, prendendo gli avversati con una corsa fatta in avanti senza scappare indietro a difesa della porta.

Insomma, io arrivo e valuto le caratteristiche dei giocatori e credo che quella disposizione possa andare bene alle caratteristiche dei giocatori che alleno: parto dal generico e faccio vedere loro i miei principi di gioco, sempre generali. E poi da lì parte il mio lavoro con la correzione dei reparti, della squadra, dei singoli. Dedico una buona percentuale dell’allenamento settimanale all’allenamento individuale: l’attaccante fa i movimenti dell’attaccante, vicino e lontano dalla palla quando la abbiamo noi e quando la hanno gli avversari. I giocatori quando arrivano devono avere una priorità: divertirsi e crescere. Per questo col mio staff cerchiamo di differenziare gli esercizi di settimana in settimana: in questo non siamo monotoni. Sempre con leggerezza. 

Fino al venerdì mischio le squadre e i giocatori, che non sono stupidi, non si illudono. Schierare la formazione titolare dal martedì è sbagliato perché decade l’intensità. Poi durante la settimana possono succedere tante cose e mi piace tenere tutti sulla corda. Giocano con quella disposizione, con quei movimenti, con quella chiarezza di sapere ciò che si andrà a fare la domenica. E si è chiari con tutti, non soltanto con quelli che hai battezzato come titolari. Tutti devono sapere cosa fare se giocheranno. Mi piace vedere che tutti si siano allenati bene e tornino a casa col sorriso per quello che hanno fatto“.

Sul rapporto coi suoi collaboratori:

Sono vent’anni che porto con me Melandri, professore ISEF che ha giocato con me a calcio, e Regno, anch’egli professore ISEF che  ha giocato al calcio. Viviamo in albergo, insieme, e non portiamo le nostre famiglie. Fondamentale avere dei collaboratori – e fra quest sono il più giovane fra l’altro – e mantenere con loro un rapporto di rispetto. Non c’è un secondo o un collaboratore che viene maltrattato: i collaboratori sono bravi, rispettati dall’allenatore e soprattutto dai giocatori. Funziona così e sono loro grato per la loro competenza e disponibilità. Sono fondamentale per la squadra”.

Nella foto, Ballardini e il suo collaboratore Melandri discutono sul da farsi prima che la squadra facesse capolino in campo dalla palestra

Sul Genoa, sulla tattica e sui pregi degli allenatori italiani:

La tua natura non la puoi cambiare: ci ragioni sopra e migliori. Io sono il contrario di quello che si vede: intanto rido spesso. Poi sono pronto al dialogo e credo di essere una buona persona. È timidezza: nel nostro ambiente ne conosco tanti che sono così. Mi dicono che non rido mai. Arrivo al Genoa con sei punti in dodici partite, sei a 3/4 punti dalla zona salvezza: e devo ridere? Come faccio a ridere? Arrivi spesso in situazioni dove devi stare sul pezzo e non puoi sorridere troppo. Credo piuttosto che, parlando del Genoa, adesso abbia la gioia di essere così: se sei così riesci ad essere competitivo, sempre presente nella gara e gli altri trovano difficoltà.

Non si parli però di leggerezza e soprattutto non la si confonda con la poca attenzione: in Italia siamo molto attenti sul fatto che i nostri giocatori debbano stare attenti. Pretendiamo dai calciatori che siano sempre al posto giusto e attivi nelle due fasi di gioco. Cosa succede da altre parti? In Spagna, mi diceva Giuseppe Rossi, la tattica quasi non esiste. In Inghilterra ci sono tanti allenatori stranieri che sono più attenti all’aspetto tattico. La ricerca della leggerezza nell’ordine, nell’esaltazione delle qualità dei singoli giocatori. I grandi allenatori sono bravissimi in queste tre cose: nell’attenzione, nell’esaltazione delle qualità dei giocatori e nel saper essere leggeri”.

DI SEGUITO LE PAROLE DI BALLARDINI AL TERMINE DELL’INCONTRO

Ballardini: “Il passato è passato, ora testa all’Inter. Il Genoa si farà rispettare” – VIDEO